IL VOTO AL TEMPO DEL DIRITTO DI TRIBUNA (di Domenico Galetta)

Il 25 settembre prossimo si torna a votare e dicono sia una festa della democrazia, anche se nessuno è così ingenuo da pensare che basti votare per vivere all’interno di una democrazia. Dipende in gran parte dal potere reale che hanno gli eletti e gli elettori nel concorrere alla definizione dell’assetto generale dello Stato e del Governo di un Paese. L’esercizio del diritto di voto (ora non più anche dovere) è uno dei parametri che concorrono a quantificare il livello di democrazia (tra gli altri possiamo annoverare il suffragio universale; le elezioni libere, competitive e ricorrenti; il multipartitismo; l’imparzialità dell’informazione; ecc.).

Quanto al diritto di voto, la vigente legge elettorale (“Rosatellum”) è un mix tra sistemi maggioritario e proporzionale, dove la quota di proporzionale la fa da padrona: 64% di liste bloccate (senza possibilità di esprimere preferenze) a fronte del 36% di collegi uninominali. Per scoraggiare la eccessiva frammentazione partitica, principale causa di ingovernabilità, il “Rosatellum” ha introdotto soglie di sbarramento (3% per le liste e 10% per le coalizioni). Ma la legge introduce un’altra variante: le liste che fanno parte di una coalizione e che prendono tra l’1 e il 3% non guadagnano seggi, ma i loro voti vengono spartiti proporzionalmente tra gli altri partiti che compongono la coalizione stessa. Solo i voti delle liste che avranno conseguito meno dell’1% andranno persi. Ecco perché i grandi partiti vanno a caccia delle forze politiche piccole con il classico do ut des: tu mi porti i tuoi voti (stimati tra l’1 e il 3%) ed in cambio ti faccio eleggere un certo numero di candidati inserendoli in collegi o liste blindate. È una operazione che permette ai partitini di prendersi la scena: una sovraesposizione mediatica per un 1,2,3% di consensi da proporre al migliore offerente. È il cosiddetto “diritto di tribuna”, ovvero l’inserimento di alcuni candidati di liste minori in una lista a cui non appartengono, ma che ha maggiori possibilità di entrare in Parlamento. È un espediente (del tutto lecito per carità!) per eludere quella esigenza diffusa di impedire la frammentazione partitica, causa di conclamata ingovernabilità. Sono operazioni che, a parere del sottoscritto, comportano una usurpazione della reale volontà dell’elettore con evidenti ripercussioni sulla quantificazione del livello di democrazia del Paese. Infatti, avendo votato ad esempio per la lista X che ha conseguito il 2%, l’elettore vede il suo voto dirottato in quota parte al partito Y che ne ha conseguito magari appena il 4, partito che mai avrebbe votato. Non solo. Il risultato conseguito dall’intera coalizione non rispecchierà l’effettiva volontà degli elettori che l’hanno votata. Perché anche gli elettori della lista Y (come quelli di altre che compongono la coalizione) non avrebbero voluto i voti di una formazione politica con cui hanno avuto scontri e che già sanno ne avranno dopo le elezioni, magari con collocazioni opposte: maggioranza/opposizione.

Ma le leggi elettorali sono fatte dagli eletti e mai dagli elettori e sono in discussione permanente perché non è semplice conciliare le esigenze di tutte le forze politiche: piccole o grandi, di destra, di centro o di sinistra. Sicché, non vengono varate fintanto non avranno offerto un salvagente a tutti, anche a quelli che ora fanno parte di un grande partito (che hanno esigenze opposte alle piccole formazioni), ma un domani non si sa mai. E quale migliore soluzione di una previsione normativa che consenta il “diritto di tribuna”?.

Sono distorsioni che contribuiscono ad allontanare la gente dal voto in segno di protesta, ma è una protesta inefficace perché tanto anche con l’11% di votanti (come è accaduto recentemente in un collegio del Lazio) il parlamentare viene eletto ugualmente. E quel parlamentare avrà gli stessi poteri degli altri e come gli altri continuerà a modellarsi nuove riforme a tutti più consone e sempre più soddisfacenti.

Domenico Galetta

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