IL MIO DIZIONARIO (di Vincenzo Palmisano) – 31^ parte

TARANTO

Come era Taranto negli anni ’50 del secolo scorso?.

Chi non ha la mia età non può saperlo. E allora chi vuol saperlo legga queste righe.

“Taranto, città perfetta. Viverci, è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari.

Per i lungomari, nell’acqua ch’è tutto uno squillo, con in fondo delle navi da guerra, inglesi, italiane, americane, sono aggrappati agli splendidi scogli, gli stabilimenti. File di “camerini”, come qui si chiamano le cabine, sulle palafitte. Traballanti, sconnessi, aperti a tutti i venti ( e a tutti i ladri ). Nello specchio d’acqua che c’è in mezzo, si svolge ogni giorno il vero, clandestino spettacolo: il bagno delle donne. Vedi file di ragazzetti, giovani e uomini alle ringhiere in pezzi, poi ti avvicini, e ti accorgi che stanno guardando le donne che prendono il bagno”. […]

Le scrisse ne” Il viaggio jonico” Pier Paolo Pasolini nel 1959, quando, arrivando in macchina, la vide per la prima volta.

Ora purtroppo Taranto non è più quella descritta dal famoso scrittore regista.

Ora in chi la conobbe e la frequentò in quegli anni restano solo frantumi di memoria.

Io  non dimenticherò mai il primo incontro con la città vecchia, pulsante di vita, la trepida emozione nell’attraversare per la prima volta il ponte girevole, Villa Peripato,  giardino pensile sullo Ionio,  la famosa pasticceria caffetteria La/Sem, i lungomari scenografici, e poi i giovani militari della Marina in libera uscita che con le loro divise animavano e coloravano di bianco azzurro la centralissima via D’Aquino, partecipando al sacro rito dello struscio cittadino.

Che anni!. Sembra ieri quando insieme all’amico carissimo Rocco Chiese, allora appassionato centauro, ai miei fratelli e ad altri amici ci recavamo nella città bimare per assistere all’arrivo della Milano-Taranto, ardimentosa ed esaltante gara motociclistica di gran fondo su strada in forma agonistica.

COSIMO CARLUCCI

Frugando dentro il mio archivio, ho trovato uno di quei fogli protocollo che usavamo per i compiti in classe.

E’ ingiallito e fragile, non è firmato, non reca la data e quindi non è un compito in classe, potrebbe essere l’abbozzo acerbo di una ricerca incompiuta.

Il breve manoscritto, infatti, contiene frammenti di memoria che riguardano lo scultore sanmichelano Cosimo Carlucci.

Ho recuperato i frammenti, li ho messi in sequenza e ne sono scaturiti una sorta di ritratto d’artista da piccolo e un quadretto d’epoca.

Leggete anche voi.

Così racconta l’anonimo autore:

“Mio padre e Cosimo Carlucci erano amici. Trascorrevano le giornate insieme, frequentavano la scuola elementare nelle case private, perché allora l’edificio scolastico non c’era, ed erano compagni di banco.

Non uscivano mai dal paese, spesso andavano in campagna, qualche volta rubavano i fioroni, e giocavano in piazza ai bottoni; Carlucci era il primo della classe.

La sua passione più grande era il disegno, disegnava tutto quello che vedeva, paesaggi, persone e cose.

Non era un ragazzo chiuso, faceva amicizia con tutti, aveva i capelli lunghi e scuri, diceva sempre che voleva diventare qualcuno”.

Leggendo queste scarne rimembranze, sono tornato bambino e ho respirato l’atmosfera agreste di un microcosmo rurale che oggi non c’è più.

Loro rubavano i fioroni, noi rubavamo le ciliegie.

Anche noi giocavamo in Piazza grande, Marconi, teatro a cielo aperto della nostra perduta infanzia e adolescenza.

Poi ho pensato al sanmichelano Carlucci artista internazionale, e con gli occhi della mente ho rivisto le sue 59 opere donate alla città di Lecce, oggi esposte nella collezione permanente del Museo ”Must” , “Museo storico Città di Lecce”, continuamente visitato da turisti e scolaresche. Anche sanmichelane?.

Delle sue opere continua a colpirmi l’armonia dialogante tra la forma plastica, lo spazio e la luce.

SUD

Apro il giornale e leggo. Il titolo dell’articolo recita: “Al concorso per 60 vigili i candidati sono 8mila 400”.

Non leggo né l’occhiello né il sommario. Non ce n’è bisogno. Bastano le due righe del titolo, più eloquenti di un saggio, a dire tutto sulla disoccupazione. Eterna piaga del nostro povero Sud.

Un esempio perfetto di stringatezza comunicativa e di brevità pregnante. Dire il massimo con il minimo delle parole.

Vincenzo Palmisano

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