Solita ballata di coppie in crisi; cosa c’è di nuovo? Una firma d’autore e di garanzia: quella di Woody Allen.
Alfie e Helena, sono una coppia matura in crisi dopo ben 40 anni di matrimonio. Alfie (Anthony Hopkins) sente di voler ritrovare gli anni perduti e non si vuole arrendere al passare degli anni come fa, invece, sua moglie; per questo divorzia e sposa un’avvenente ragazza squillo di nome Charmaine, che, secondo il più classico dei clichè, è più interessata ai suoi soldi piuttosto che a prestazioni dopate da pillole di Viagra. Helena (Gemma Jones), ex moglie di Alfie, abbandonata nel momento della tarda età, dopo vari tentativi con molti psicologi, sceglie, infine, di perdere il legame con la realtà e affida ogni sua decisione a una ciarlatana che si spaccia per una veggente. La loro figlia Sally (Naomi Watts), sposata con lo scrittore mezzo fallito Roy (Josh Brolin) è stufa di mantenerlo (da sola e/o con l’aiuto della madre) e prende una sbandata per Greg (Antonio Banderas), proprietario della galleria d’arte dove lavora; Roy invece cerca di superare la crisi da pagina bianca sottraendo un manoscritto a un amico vittima di un grave incidente e per questo motivo creduto ormai morto; nel frattempo si invaghisce dell’avvenente vicina di casa indiana Dia (Freida Pinto) che però è in procinto di sposarsi. Ovviamente tutto quello che potrebbe andare male, lo farà e proprio questa fatale legge di Murphy è citata nel film.
Ci troviamo davanti a un film che rivisita con stile e originalità i soliti temi cari al buon vecchio Woody; il regista ora più che mai li ha eretti a “Fede” artistica e con maliziosa arguzia ce li ripropone da un altro punto di vista e da altre prospettive; ha svolto questo compito avvalendosi dell’aggiunta della saggezza dovuta all’utilizzo del “principio di autorità” di Shakespeare condito, in ultima ratio, da considerazioni filosofiche sul tema dell’illusione che vanno da Platone a Kant, soprattutto Kant.
Il film comincia con una emblematica e significativa citazione del più celebre monologo del “Macbeth” di Shakespeare: “La vita è piena di rumore e di furore e alla fine non significa nulla” (originale “completo” shakespeariano: “Life‘s but a walking shadow, a poor player that struts and frets his hour upon the stage and then is heard no more: it is a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing.)
Contrariamente a quanto suggerirebbe una prima lettura della situazione, Helena, quando va dalla veggente ciarlatana, non è ingannata: è semplicemente illusa.
Platone si orientava a ridurre il mondo della realtà alla dicotomia inganno-verità. Questa idea platoniana sembrerebbe identificare l’inganno con l’illusione; per Kant l’illusione, invece, a differenza dell’inganno, è parte della verità. Kant opera queste distinzioni basandosi sul fatto che, nel primo caso (inganno), una volta scoperto il trucco, ci si stanca presto del gioco, mentre nel secondo caso (illusione) si scoprono sempre cose nuove. (I. Kant, Inganno e illusione, in Kant/Kreutzfeld, Inganno e illusione, a cura di M.T. Catena, Ed. Guida, Napoli, 1988, pp.44-45).
Tramite questa illusione, che è un gioco di realtà, Helena trova, nella vita reale, l’uomo dei suoi sogni; a differenza del marito che si inganna e cede al gioco degli inganni e ne resta vittima.
In questo gioco cade anche la figlia e il suo tormentato marito scrittore: su quest’ultimo pesa il giudizio più duro da parte del regista perché egli è l’ingannatore per eccellenza. Egli è il ladro di proprietà intellettuale; è il ladro della fiducia dell’amico e vittima (inconsapevole?) del furto.
Tutti ingannano e sono ingannati.
Helena, la meno razionale del film, a conti fatti e a differenza degli altri, paradossalmente e contrariamente a quanto potremmo supporre, sembra essere, invece, l’unica ad abbandonarsi a un gioco di verità.
Il cinema sembra configurarsi come quella fabbrica di illusioni che ci allena alla vita; sembra quasi che il messaggio sia quello di abbandonarsi, come Helena, alle verità delle illusioni.
Lasciamo gli inganni alle cattiverie dei nostri simili e alle astuzie della politica e concediamoci la veritiera illusione della fabbrica dei sogni su pellicola.
Alla fine, il vecchio Allen sembra insinuare: a cosa serve poi il grande cinema?