La contrada Cotogni (di Nicola Romanelli)

Riprendiamo a pubblicare altri capitoli del libro “Il gusto della mela” scritto da un sammichelano doc. Nicola Romanelli questa volta ci propone “La contrada Cotogni”.

Nella foto, della famiglia Romanelli, Nunna Letchye, Cosimo, Danodda, Batudd.

 

Dopo l’acquazzone, i nuvoloni si diradarono e apparve di nuovo il sole!
In breve quel diluvio d’acqua non rimase che il ricordo.
La terra molliccia ritornava polverosa e l’aria deliziosamente rinfrescata, in fretta lasciava il posto all’afa e ti faceva sentire tutto appiccicati!

Con Martin gironzolavamo nei dintorni del canneto, dove il terreno era rimasto ancora soffice per l’acqua e affondavamo i nudi piedi nella lota. Il canneto folto aveva trattenuto con le sue fitte radici ancora dell’acqua e stavamo per introdurci con molta precauzione! Passava in quel mentre Batudd che intuendo le nostre intenzioni ci grida :
- E per la miseria! Con tanto posto proprio li dovete andare a giocare, sparite di là! –
- Batù, vogliamo solo vedere, ci facciamo una canna e ce ne andiamo. –
- Andatevene, vi ho detto: chi cade là dentro, non esce più! –
Vuoi farci paura? –
- Può essere, ma avete visto tutta l’acqua che inghiotte il canneto?! E non si riempie mai? Tutta quell’acqua finisce in mare!
Adesso ho fretta e non posso perdermi con voi. Devo andare a Massarianova con la bicicletta. Portate un secchio d’acqua fresca, laggiù avanti, che stanno raccogliendo i fichi. Sbrigatevi che hanno sete! –
Martin, il compagno di campagna, si sentì chiamare da Anna, la madre, giovane donna, provata già dalle fatiche campestre. Abitavano nel fondo adiacente in una piccola casedda. Lui di corsa rispose al richiamo ed io mi affrettai a eseguire quanto dettomi da Batudd.
Non avendo con chi giocare, mi accontentavo di fare ogni tanto quello che Lina o il padre stesso chiedevano, e se vedevo che ne approfittavano, me la svignavo furbo senza contrasti. Da lontano o nascosto nella vigna sentivo quando avevano bisogno di me per qualche servizietto, e mugugnavano scherzandoci sopra che me l’ero data a gambe proprio per non concedere loro più del dovuto.
- Che Colin non è fesso – diceva Ria ridendo di gusto. –
Mio padre fischiettava bandiera rossa mentre svuotava un pesante paniere di fichi sulla scèye, (sorte di barelle di canne) mentre io curioso uscivo dai filari di vigna colmi di grappoli di uva nera, correndo da lui.

- Colì, vieni qua, che ce la fai ad entrare meglio tra le scèye. Sparpagliali piano piano i fichi che separati seccano meglio sotto il bel sole.
Fischiettavo la stessa aria e mi sentivo grande e importante.
- Bravo caporale! la prossima volta ti faccio sergente! –

E fischiettando tornò sotto i fichi. Gli alberi ne erano colmi e profumavano che era una bellezza, ed ogni tanto mi prendeva la voglia di aiutarli. Stando appollaiato sui rami, erano più quelli che mangiavo che quelli che passavo mo a Lina mo a Ria, infatti mi ero accorto che esse facevano a gara, senza darlo a intendere, a chi riempiva più svelto il paniere. Lina malgrado i suoi sforzi nulla poteva contro l’abilità della sorella maggiore, e s’indispettiva fino al nervosismo. Pur di raggiungere il suo scopo, usava qualche sotterfugio per fare più in fretta.
- Abbassami quel ramo, Colì – mi bisbiglia Lina.
Capisco la sua intenzione e l’aiuto fingendo di niente. Lei stacca i frutti a due mani senza dover reggere il ramo, e poi passando ad altri rami giunge finalmente prima ad avere pieno il suo paniere.
La gioia di Lina divampa come fuoco allu ristucc.(paglia) Esulta e se ne vanta. Riceve i complimenti della mamma e della sorella, mentre io per ripagarmi dell’aiuto datole le tiro sulla folta chioma una fica spaccata, molle troppo matura. Lei reagisce centrandomi con altrettante mature a cui rispondo dall’alto con precisione dritto sulla fronte. Si arrabbia, tira il ramo dove sono appoggiato, ed io salto su un altro, e lei svelta con tutta la sua forza tira fino a spezzarlo. Ma io non sono caduto, sono saltato come una scimmia su un altro ramo, e con agilità di ramo in ramo, attento alla loro fragilità raggiungo con un balzo il terreno morbido, evito la ramata rabbiosa di Lina indiavolata e rincorso da lei fuggo sfidandola, ormai sicuro della mia velocità nella corsa.
Lina infatti desiste e torna indietro accolta dalle risate non solo nostre, ma dei vicini anch’essi impegnati alla raccolta dei fichi, ed hanno assistito alla nostra esibizione. Lina noncurante, si lascia svuotare sulla testa il secchio d’acqua per pulirsi i capelli, mentre mio padre mi ordina di andare a riempire il secchio e a Lina di finirla col litigio. Nel prendere il secchio a terra, lei scuote violentemente la chioma, investendomi di spruzzi. Lei ha la sua rivincita, io sono contento del rinfresco in quel caldo e scoppiamo a ridere. Facciamo così pace.
Antonio intanto andava a svuotare i panieri man mano che venivano riempiti.
Il tragitto si faceva di volta in volta più lungo, quando si passava da un albero di fichi colti ad un altro da cominciare: le scèye esposte al sole stavano davanti il trullo e Nucc ormai appariva na pezza da piedi fradicia.

Questo compito lo infastidiva e pretendeva che lo aiutavo e proprio per il suo esigere non mi passava per la testa di assecondarlo, anzi sebbene avesse quattro anni in più ardivo sfidarlo, usando con astuzia le sue debolezze e soprattutto l’aiuto inconscio di Batudd. Spettava difatti a Batudd, essendo il primogenito il controllo educativo su di noi fratelli e sorelle, e non sopportava la mala creanza. E al momento buono tiravo Nucc in errore o in situazione da meritare una correzione. Insomma Nucc usava contro di me la forza ed io contro di lui l’astuzia senza condizioni. Le botte che mi dava o le sue prepotenze, le riceveva indietro, e come, lo sapremo in altro luogo.
Al momento egli mi aveva già fatto capire diverse volte che dovevo aiutarlo e, per provocarlo, andavo ad issarmi comodamente sull’albero di fichi di turno, quello dove tutti erano a lavorare.
- Scendi di lì, e vieni a darmi una mano! Sono pesanti i panari. Hai capito, vieni giù! –
Per tutta risposta, cercavo con noncuranza una di quelle fiche ammuffite per troppa maturazione, la staccavo con delicatezza, e come Antonio mi passava sotto, la mollavo con precisione sulla capa. Nessuno mi aveva notato. Era chiaro per tutti che quei tipi di fichi prima o poi cadevano al suolo da soli. Quindi chi stava sotto doveva tenerne conto.
La collera di Nucc era incontrollata. Più si sbracava e le risate aumentavano. Tutti capivano la casualità, meno Nucc che intuiva e il suo rancore aumentava a suo discredito.
- Raddrizzi gli occhi, – lo riprendeva mio padre, – invece di prendertela con lui.
- Ah si, e mo vediamo se non scendi! –
Nucc non ci vedeva più dalla rabbia. Era nel suo diritto, e passava pure beffato.
Afferra un sasso e sta per tirarlo ma mio padre mi viene in aiuto:
- Nù, ancora qui sei, i panieri si riempiono e tu giochi? Muoviti per tutti i ciucci! Colì, vai a prendere subito un altro secchio d’acqua. –
- L’ ho appena portata! – provai a lamentarmi.
- È diventata calda come la sciotta ormai.( l’acqua in cui si è bollita la pasta) La vogliamo fresca. Muovetevi adesso – aggiunge gonfiando il tono.
E sbeffeggiandoci ci dirigevamo verso il nostro obiettivo mantenendo tra noi una distanza di cautela.
- Il cocco di mamma, bamboccio – mi provocava.
- Cik di Murron – lo apostrofavo, – e solo per questo soprannome, considerato da lui un’ingiuria assassina, mi avrebbe strangolato.
Cik di Murron, è uno di Massarianova, che passa tutti i giorni dal nostro fondo di sobb’Ataén. Non è bello a vedere. È gobbo, zoppo e i movimenti degli arti incontrollati. Il viso sempre stravolto e un rivolo di saliva sul mento. Un braccio contorto, e le mani, quali mani, rassomigliano alle zampe di una capra. Per raggiungere la sua campagna passa sul nostro fondo, il sentiero vicino la nostra casedda.
E come lo vediamo lo provochiamo divertendoci a fargli male. Lui gesticola minaccioso e noi spaventati ci teniamo a distanza senza rinunciare ad aizzarlo: Cik di Murron – Cik di Murron! finché lui straziato di rabbia, latrando, scompare alla nostra vista.
Nucc non accetta di essere paragonato a quel rifiuto della natura…
Scaraventato a terra i panieri m’inseguiva per tutto il fondo. La lepre e il cane. Solo che dove passiamo lasciamo le nostre tracce e anche i danni all’uva, ai rami di fichi strappati, ai pomodori calpestati fino a quando il fischio possente di nostro padre ci frena. Anzi lo frena che io approfittando del suo smarrimento sarei arrivato già a Massarianova. E invece trattenendo il mio affanno, sono andato a prendere svelto l’acqua dalla cisterna e porto il secchio alla mamma che pare preoccupata.
In quel mentre nostro padre grida spazientito:
- E i morti di Giuda! Ma vedi un po’! Chi è stato quello screanzato! – …e intanto strofinava il piede nella terra sputando con disgusto, cercando di liberarsi dalla merda.
Le risate sgangherate risuonavano sulle campagne. Lina rideva senza freni, piegata stringeva la veste tra le ginocchia fino a strapparla, la mamma quasi soffocava. I vicini di campagna incuriositi accorrevano per conoscere la causa di quell’insolita ilarità.
Guardavano e il coro delle risate s’incendiava.
- Dovete finirla con questi scherzi di merda, – s’infuriava e rideva pure lui coinvolto suo malgrado!
- Buttami un po’ d’acqua qua sopra, – sporgendo il piede in avanti – che forse sei stato proprio tu!
Ridevo e ridevo. Ma guai a dirgli che l’autore ero stato veramente io stesso!
Il gioco era semplice. Quando andavo a cacare sceglievo un posto dove sapevo che altri dovevano prima o poi passare. Facevo una fossa giusto quanto bastava, e dopo la cacata la coprivo appena appena con un po’ di terra fine. Qualcuno sarebbe caduto nella trappola… ed era quasi sempre … Cosimo di Barnabbät!

A sera mentre Lina va a strappare il profumato origano selvatico che cresce attorno ai muretti, la mamma raccoglie in una pentola dei pomodori dalle piantine, e la Ria a fianco il grande trullo, sotto l’ombroso e vecchio fico tagliuzza la cipolla, mentre nostro padre taglia a dadi il pane tosto col consumato coltello!
Batudd mi incita a raccontare il film che abbiamo visto la sera prima in paese.
Io raccontavo una parte proprio mentre l’attore principale, Yid, mangiava.
[ Yid = lui, cosi indichiamo nel nostro dialetto l’attore protagonista]
Mio padre intanto aveva aggiunto al pane, l’olio, la cipolla, l’acqua, l’origano, il sale e mescolava il tutto, in attesa che la mamma aggiungeva i piccoli pomodori saporiti tagliati a metà.
- E, Yid, continuavo io, prendeva e metteva in bocca, prendeva e metteva in bocca, prendeva e metteva in bocca. Nel dire eseguivo alla lettera quanto dicevo. Prendevo dalla scodella un pezzo di pane e lo mettevo in bocca…-
- Aoh, sbotta mio padre, basta che ti mangi tutta l’acquasäle,( acqua e sale tipica pietanza contadina di Massarianova) e a noi che ci resta?
Antonio viene in mia difesa: Colin è un attore! Ha fatto meglio di Yid, eh Batù?
Mamma arriva con la brocca dell’acqua e i pomodori. I pomodori li versa nella capace scodella e rimescola. Noi tutti seduti con la forchetta in mano aspettiamo che nostro padre comincia col primo boccone.
Non appena lui tira fuori lentamente il pezzo di pane con la sua forchetta e recita in un fiato, vien Crist e mang cu nnu, noi tuffiamo le nostre all’unisono nella comune e capace scodella!
Abbiamo sempre una fame da lupo. Complice la profumatissima acquasale e la campagna coi suoi profumi ma l’aria densa spinta dalla pezza vicina ci accresce l’appetito. Se non mi credete passata qualche volta dalle nostre pezze e mi darete ragione e allora si che vi pentirete di non avere con voi nemmeno un tozzo di pane e guai a voi se pensate malauguratamente agli gnummariedd (tipico bocconcino di Massarianova, fatto con intestini di capra attorno a un pezzetto di carne) sentirete gli intestini attorcigliarsi dalla fame.

Pure i genitori di Martin, cenano davanti la loro casedda, e c’invitano come d’usanza dalle nostre parti “ Favorite a mangiare con noi “ cui nostro padre risponde per tutti “ Grazie, favorite pure voi.”

Come il sole scende dietro l’ultima fila di alberi che toccano il cielo, e la luce perde il suo splendore, ed appaiono i pianeti e la luna, ecco che arriva Minguccio con la sua fisarmonica e il padre di Martin con la vecchia chitarra. Tutte e tre le famiglie sedute attorno un vecchio tavolo, posto nell’ampio spazio davanti il trullo, godono, finalmente la frescura, che addfräsch ( rinfresca) l’aria bruciata al passaggio del focoso destriero, e il riposo dalle scomode fatiche di campagna.
Placidamente si discute della giornata trascorsa e di quella che verrà.
A pochi metri da noi, nella penombra si scorgono appena le sagome delle scèye accatastate l’un sull’altra e coperte da teloni dall’insidioso freddo della notte.
Quest’anno abbiamo molti fichi, abbiamo più lavoro, guadagneremo il nostro tozzo di pane. Ma sono sempre i soliti sfruttatori che decidono i prezzi a guadagnare sulle nostre fatiche, però siamo contenti che li comprano, che ormai nemmeno i porci li vogliono mangiare… Le mandorle vanno meglio… forse un giorno mi decido a scappare i fichi e piantare mandorli … ma a tutti noi dispiace fare questo sacrilegio … distruggere il lavoro dei genitori, dei nonni dei nostri nonni… e pensare … quanto sudore per piantare e crescere questi alberi di fichi!
La musica melanconica come sotto fondo, l’aria frizzante di odori selvatici della vicina pezza, stelle fitte come bianche margherite in un prato d’inchiostro nerissimo.
Accucciati su un sacco riempito di fresco rustucc, Martin ed io ci appropriamo delle stelle e ce le contendiamo amichevolmente e a volte litigando con calci e pugni. Ci scompagniamo e rifacciamo pace, scambiandoci l’Orsa maggiore o l’Orsa minore, quando un valzer suonato con la fisarmonica ci fa balzare. Ci piace ballare. I valzer sono la nostra passione. Li abbiamo imparato osservando i grandi. In seguito sudati e soddisfatti ci ributtiamo sul nostro comodo giaciglio.
Martin dorme accanto a me come un buon pirata, ed io penso al canneto, a quello che Giuseppe ha detto con tono di mistero! M’indispettisco, un desiderio caparbio mi assale… devo andare…

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