TIEMP DI FICH (di Sante Carriero)
La mia famiglia nei primi anni ’50 era composta come segue: mio padre “Vitucciu lu tianese” Carriero Vito, originario di Latiano, mia madre “Lina di Pizzittin” Apruzzi Giovanna poi i miei fratelli Pasquale, Donato, Palma e lo scrivente. Viveva con noi anche mio nonno materno “Santudd di Pizzittin” Apruzzi Sante originario di Ostuni, capostipite degli Apruzzi di San Michele, che portava un orecchino con incastonata una pietra come lo smeraldo.
Quando ero piccolo (anni 50), per la raccolta dei fichi ci si trasferiva in campagna prima di Santa Maria (15 Agosto). Si caricavano quelle poche masserizie “sobb lu train” e si prendeva la strada di Contrada Grottole, agro di Latiano.
Li’ giunti, si sistemavano quattro cinque letti nel pagliaio principale con pavimento in terra battuta. Il primo letto a sinistra era quello di “tat’Antudd” (nonno Sante), poi seguivano gli altri a giro.
La prima operazione era quella di rattoppare e rinforzare “lu pagghiar” (pagliaio) “cu lu “rustucc” (stoppie) e con nuove forche che costituivano l’intelaiatura.
Quindi si provvedeva al lavaggio ed alla riparazione “di li sciaie” (cannizze) sostituendo le canne malandate con quelle nuove.
Si allestivano i binari con terra e pietre sovrapposte, dove si dovevano spandere al sole “li sciaie” con i fichi di prima categoria; mentre per “li fichi scart” (di seconda categoria) si preparavano “li littère” fatte di “ristucc”.
Maturati i primi fichi, si cominciava la raccolta “cu li panar” (cesti di canne con manico nella parte superiore intrecciato di rametti) ; per quelli posti sui rami più alti si usava “lu cuerc” (sorta di uncino con manico lungo).
Ricordo mia madre che mentre raccoglieva i fichi cantava. Noi piccoli raccoglievamo i fichi caduti a terra o dalle (vrocche) (rami di fico) che allora si facevano arrivare fino a terra per raccogliere più fichi.
Ricordo che per la raccolta si reclutavano braccianti anche di Cisternino, oltre che di San Michele (Romanelli Immacolata – Romanazzi Lina), e vi si stabilivano per il tempo necessario; io bambino facevo da guardiano a loro e quando scorgevo il fidanzato che si avventurava in quella contrada, distante da San Michele circa sette chilometri, cercavo di respingerli con le pietre.
Quando il tempo minacciava pioggia e nuvole nere si addensavano nel cielo, alle prime gocce d’acqua si correva ad “incannizzare le sciaie” (accatastare le cannizze) a pile di 10-15 unità e si coprivano con teloni.
Operazione inversa si faceva quando tornava il sereno.
Dopo la pioggia ci si recava con la mamma presso una pianta di fichi d’india, dove lei, dopo aver tolte le spine con foglie di fico ce li porgeva fresche fresche.
Se c’era stato un temporale con tuoni e lampi si usciva alla ricerca di “ cozze patedde” (lumache) che, a quei tempi uscivano numerose sì da riempirne anche “nu pusunett” ( un paiolo).
Nel pagliaio attiguo a quello principale alloggiava il cavallo.
Tutte le attività si svolgevano all’esterno del pagliaio davanti al quale c’era un piccolo spiazzo in terra battuta, una cucina fatta con pietre sovrapposte a forma di ferro di cavallo, dove per cucinare si usavano “li favarazz” (steli di fave secchi) messi da parte per tale scopo e rami secchi raccolti nel fondo.
Davanti al pagliaio c’era un albero di gelso maestoso sotto il quale si pranzava e si trascorreva gran parte della giornata. Sotto la sua ombra sedeva nonno Sante con la sua la pipa di canna ad esse con il becco di creta fumante di tabacco toscano e con il bastone di fianco, pronto per tirarcelo addosso quando lo facevamo arrabbiare.
Ricordo che il gelso era così alto che, arrampicandomi fino a raggiungerne la cima, come una scimmia, riuscivo a vedere il campanile della chiesa di San Michele pur essendo la campagna distante circa 7 km. dal paese.
Per il rifornimenti dell’acqua ci approvvigionavamo d i un “acquaro” (grande cisterna che raccoglieva le acque piovane) a forma di campana posto a circa un km. sulla strada che portava a Latiano e vicino alla masseria di Tussano; si andava prima dell’imbrunire armati di “menze, mummuli e secchi”.
In quel tempo il mercato settimanale si teneva la domenica. Noi piccoli verso mezzogiorno ci portavamo in fondo alla stradina poderale sulla strada principale per vedere se nostro padre stava arrivando. Quando arrivava con la sua bici con sul portabagagli una cassetta piena di melanzane, peperoni, sedano ed il prelibato mellone giallo brindisino lungo come una barchetta, era una gran festa.
Dopo una settimana di lavoro, la domenica sera si ballava nello spiazzo in terra battuta antistante il pagliaio. Veniva mio cugino “Santudd di Giuliavit) (Sante Arpino con la sua “ricunett” (organetto) ed allietava la serata con pizzica, serenate e polka.
Verso la fine della campagna dei fichi si preparavano “li fichi cull’amenl) (fichi mandorlati) che si infornavano nel forno della zia Tina. Che aroma paradisiaco quando si apriva il forno! Siccome la mamma non arrivava in fondo al forno faceva entrare me per raccogliere i prelibati fichi dorati.
Quindi ci si preparava per il rientro a casa. Si caricavano prima i fichi di prima scelta poste nelle casse e poi gli altri (li scart) nei sacchi.
Il percorso di rientro qualche volta era avventuroso in quanto le strade sterrate e rese fangose dalle piogge, piene di fossi specialmente nei pressi della masseria “La Marangiosa” nei quali le ruote “di lu train” (traino) sprofondavano fino a 50 cm.
Col ricavato dalla vendita dei fichi si tirava a campare per diversi mesi e si saldavano anche i debiti che erano scritti sulla “librett”, con copertina nera, man mano che si faceva la spesa presso“la putea” (alimentari) di “Licch” (Angelo) Torroni.
Per l’inverno si faceva la scorta di fichi che si depositavano nei “pitali” (grosse giare); così quando si andava a scuola nella borsa di cartone si mettevano fichi e pane.
Che tempi!
Sante CARRIERO
Bravo Sandrino! Il tuo non è solo un ricordo dei tempi in cui si raccoglievano i fichi, ma uno spaccato di vita “antica-romantica-irripetibile”! Mancano le foto e mi piacerebbe tanto vederne una di Santudd con l’orecchino!