Elio Palmisano Atelier d’Arte Tessile
L’atelier di Elio Palmisano rappresenta una delle poche imprese italiane (se non addirittura l’unica) ad aver realizzato un gran numero di arazzi e tappeti nel corso della seconda metà del Novecento, in sinergia con gli artisti contemporanei. Dal 1968 al 2005 circa Palmisano ha creato una collezione di quasi 320 soggetti, fra arazzi e tappeti, disegnati da artisti e designer di fama, da Giacomo Balla a Ettore Sottsass. Utilizzando le antiche tecniche artigianali di lavorazione, Palmisano è riuscito davvero a tessere lo scenario dell’arte italiana del XX secolo. Della manifattura di Elio Palmisano si è molto parlato nei quasi quarant’anni di attività, durante i quali le sue opere erano apprezzate e valorizzate soprattutto dal nuovo mondo del design. Tuttavia, ad eccezione di un catalogo pubblicato nel 2006 che raccoglie le realizzazioni più significative della manifattura, non è mai stato dedicato a questa lodevole impresa un adeguato studio che ne ricostruisse la storia e il corpus di opere.
Grazie alle narrazioni di Elio, prezioso collaboratore nella stesura di questo racconto, e ai ricordi degli artisti tuttora viventi che hanno lavorato con lui, oltre che naturalmente alle numerose opere che ancora oggi si conservano, è stato possibile tracciare il percorso compiuto da questa manifattura, “pietra miliare” nell’arte tessile italiana del Novecento.
Nato a San Michele Salentino nel 1935, il giovane Elio iniziò a “innamorarsi” dell’arte ai tempi delle scuole superiori, grazie alla passione dei suoi insegnanti di Arte, Storia e Filosofia del Liceo Classico di Francavilla Fontana che gli “hanno aperto la mente”. Terminati gli studi, raggiunse Roma con l’intento di intraprendere la carriera diplomatica. Roma però non fu che una breve sosta; poco dopo Palmisano si ritrovò a Milano, nel vivace ambiente artistico di Brera. L’incontro con alcuni importanti editori lo condusse a occuparsi della supervisione di testi d’arte destinati alla pubblicazione. Di lì a poco, e senza avere alcuna conoscenza del mercato dell’arte, aprì una sua galleria in Via della Spiga: luogo d’incontro per collezionisti e appassionati, la Galleria dell’Incisione fu per Palmisano occasione di conoscenza e confronto con illustri personaggi dell’epoca.
Nel 1962 fondai a Milano la galleria d’arte denominata “Galleria dell’Incisione” per esporre le “incisioni a puntasecca” di Umberto Boccioni che gli studiosi d’arte ritenevano disperse. È iniziata così la mia attività di gallerista. Nel corso della mia attività ho conosciuto artisti e designers (Victor Brauner, Roberto Caspani, Beppe Caturegli, Piero Dorazio, Nathalie Du Pasquier, Gianfranco Ferroni, Tihamér Gyarmathy, Friedensreich Hundertwasser, Oskar Kokoschka, Ugo Nespolo, Mario Radice, Mauro Reggiani, Beatrice Santiccioli, Ettore Sottsass, George Sowden, Mark Tobey, Luigi Veronesi,e tanti altri); studiosi d’arte (come Gillo Dorfles, Enrico Crispolti, Mario de Micheli, Marco Valsecchi, Domenico Porzio e Achille Bonito Oliva) e scrittori (in particolare Dino Buzzati, Indro Montanelli, Alberto Arbasino, Leonardo Sciascia e Giorgio Bocca.
Le esposizioni alla Galleria dell’Incisione portavano in scena in primis le avanguardie storiche europee, dagli artisti della Secessione Viennese alla Nuova Oggettività sino ai Futuristi Italiani. Fu proprio una mostra dedicata ai maestri del Futurismo Giacomo Balla e Fortunato Depero, nel 1966, a segnare profondamente la vita di Palmisano. Il focus in quell’occasione era sui progetti di arte applicata e, grazie alle figlie di Balla, Luce ed Elica, Palmisano scoprì i disegni per tessili elaborati dal loro padre, rimasti solo allo stadio progettuale. Con l’entusiastica approvazione di Luce ed Elica, Palmisano decise di realizzare quelle opere rimaste incompiute: avvenne così l’incontro “fatale” con l’arte tessile.
In occasione della mostra di Balla e Depero chiesi a Luce ed Elica Balla perché i progetti di Giacomo Balla per arazzi e tappeti non erano stati mai realizzati. Luce mi rispose che suo padre non riuscì a trovare un imprenditore tessile disposto a produrre tappeti “così stravaganti”. Mi frullò subito in testa l’idea di provare a realizzare i progetti per tappeto di Balla. Dopo qualche giorno telefonai a Luce Balla e le dissi che volevo tentare l’impresa di realizzare i progetti di Balla. Mi rispose che erano d’accordo e che mi avrebbe inviato un fotocolor di “Fiori + spazio” unitamente ad un cartoncino con i relativi colori a tempera. Mi recai a Izmir, cittadella affacciata sul Mar Egeo. Mi sembrava di essere arrivato su un’isola greca. L’indomani raggiunsi il laboratorio artigianale di tessitura segnalatomi dal Console Turco di Milano. Il direttore mi fece visitare il laboratorio, dove c’erano cinque telai verticali di legno per tessitura. Gli mostrai il fotocolor e il cartoncino con i colori per il tappeto da realizzare in 200 x 300 cm. Mi disse che sarebbe stato tessuto con nodi ghiordes come un tappeto che stavano tessendo su un piccolo telaio; e che avrebbe cercato di tingere i filati di lana in base ai colori del cartoncino. Dopo sei mesi il prototipo di “Fiori + spazio” arrivò. Lo inviai alle sorelle Balla per il controllo e Luce mi rispose che il tappeto era ben fatto, ma consigliava di aggiustare i colori. Visto il risultato del primo tappeto proposi alle sorelle Balla di realizzare anche i progetti “Specchio d’acqua”, “Colorprisma” e “Balfiore”. Mi risposero che acconsentivano, ma desideravano un compenso definitivo e in un’unica soluzione a fronte dell’autorizzazione a realizzare i quattro progetti sopra menzionati. È cominciata così la mia avventura alla scoperta dell’arte tessile.
Palmisano ambiva a divenire indiscusso protagonista del mondo della tessitura artistica italiana del secolo, ma questo per lui significava frequentare per la prima volta ambiti che gli erano completamente sconosciuti. Si prefisse pertanto di scoprire ogni segreto di quell’antica arte, visitando in particolar modo quei paesi che ancora ne tramandavano le ancestrali tradizioni. Partì quindi alla volta della Turchia, della Romania, dell’Afghanistan, del Pakistan, del Kashmir e della Cina, arrivando persino in Iran e Iraq. In ogni luogo dove sostava approfondiva le varie tecniche e i diversi metodi di lavoro; si soffermava a lungo per apprendere una cultura specialistica, con l’intento di acquisire tutte le abilità possibili per adattare il tessile alle forme espressive dell’arte contemporanea. Indelebili nella sua memoria i ricordi del soggiorno a Srinagar, nel Kashmir indiano.
Srinagar è situata in una valle del Kashmir percorsa dallo Jhelum, un affluente del Gange. La città si estende fino alle rive del lago Dal ed è attraversata da numerosi canali. Come le gondole a Venezia, snelle imbarcazioni dette shikara, graziosamente addobbate, solcano le numerose vie d’acqua cittadine mentre sulle rive del fiume Jhelum e del vicino lago Dal sono all’ancora numerose “House Boats”, vere e proprie case galleggianti inadatte però alla navigazione. Qui ho visitato il laboratorio di tessitura artigianale più funzionale che abbia mai visto durante i miei viaggi. Era suddiviso in cinque reparti: filatura della lana e candeggio, tintoria, lavorazione dei tappeti, lavorazione degli arazzi, lavaggio e asciugatura. Nel reparto tappeti c’erano quindici telai di legno verticali per la lavorazione dei tappeti annodati e sei telai di legno orizzontali per la lavorazione dei kilim; nel reparto arazzi eseguivano disegni con diverse tecniche di lavorazione: a punto catenella, a piccolo punto, a punto gobelin e a punto croce. Il direttore della manifattura mi ha trattenuto parecchi giorni per farmi osservare tutti i processi di lavorazione di ogni reparto. Ho trascorso quaranta giorni indimenticabili a Srinagar, dove è finito il mio corso di studio della lavorazione degli arazzi e tappeti.
Di ritorno in patria, Palmisano stabilì un suo atelier nei pressi di Milano. Sotto la guida di un’abile tessitrice, nonché apprezzata insegnante di Arte tessile, assunse alcune giovani donne perché apprendessero l’arte tessile.
Tornai a casa per trovare una sede idonea ad un atelier di tessitura. Non la trovai e allora comprai un terreno edificabile vicino all’ uscita di Saronno dell’autostrada Milano-Como. Vi costruii un capannone luminoso di 600 mq, alto 8 metri, con 10 ampie vetrate 3 x 6 metri. Via Strà Madonna, Saronno. Ora bisognava trovare i telai.
A Firenze c’era un artigiano che costruiva telai di legno per gli istituti tecnici di tessitura (allora ce n’erano). Gli chiesi se poteva costruire tre telai orizzontali di legno per tessitura kilim: uno da un metro, un secondo da un metro e mezzo e il terzo da due metri. Mi disse di sì, ma con consegna a 60 giorni dall’ordine. Confermai l’ordine e la consegna poi fu puntuale. In attesa dei telai gli chiesi se conosceva qualcuno esperto di tessitura. Disse che all’Istituto d’Arte Tessile di Firenze c’era una insegnante, Barbara Martini, che aveva voglia di cambiare aria. Andai a trovarla, e fui sorpreso dalla sua bellezza e dal suo leggiadro abbigliamento. Le dissi che volevo realizzare i progetti dei Futuristi Italiani. Mi parve che fosse interessata a collaborare. Mi avrebbe dato una risposta presto. Quando il telaiaro mi telefonò per la consegna dei telai mi disse che sarebbe venuta anche Barbara Martini per vedere l’ambiente. Montati i telai, Barbara confermò la sua disponibilità a collaborare; mi chiese di vedere i disegni da realizzare, mi disse di trovare cinque apprendiste e mi diede le specifiche dei filati di lana da usare. “E per i telai verticali dei tappeti?” le chiesi. “Vai a Mortara, chiedi in Comune dov’è la tessitura di tappeti della Contessa” rispose Barbara. Nel Laboratorio tessile della Contessa c’erano 4 telai verticali di legno costruiti nel 1937: due di 3 metri di larghezza, uno di 2,5 metri e il quarto di 2 metri. Lavoravano poco ma erano tenuti in ordine da Domenico Selvatore, che si occupava anche della tintura delle lane. Con la sagace collaborazione di Domenico realizzammo alcuni prototipi dei miei disegni. Nella primavera del 1970 la contessa mi cedette i telai. Li smontammo e li rimontammo nell’atelier di Saronno.
L’avvio della manifattura di Palmisano partì dunque dal Futurismo, ripercorrendo quanto la corrente artistica aveva compiuto nei primi decenni del Novecento nel campo dell’arte tessile: ossia l’essere stata la promotrice di un “rinnovamento” che portasse le arti decorative ad “abitare il quotidiano” e a ottenere stessa dignità delle cosiddette “arti maggiori”. Nel 1968 prese forma la prima produzione delle Edizioni Tessili Palmisano con quattro tappeti, da disegni di Giacomo Balla, in un’edizione di pochi esemplari per soggetto: Balfiore; Colorprisma; Fiori + Spazio; Specchio d’acqua.
In seguito, proseguendo sulla strada del Futurismo, Palmisano studiò le opere di Fortunato Depero: disegni per tessili, ma anche dipinti e tarsie di panni colorati dell’artista. Nel 1973 un piccolo olio su tela del 1918, Bagnante, fu lo spunto per un arazzo a tarsie di tessuto, lavorato a mano con vari tipi di ricamo (cordonetto, punto lanciato, punto pieno e punto raso); nello stesso anno realizzò quattro tappeti: Donna fiore, Ballerina, Quattro teste e Tre pesci.
Dalle composizioni di Gino Severini, visionate e rielaborate grazie all’autorizzazione della moglie dell’artista in virtù della loro amicizia, Palmisano realizzò tre tappeti: Ballerina, Danzatrice, Il gioco delle carte; e un arazzo Il ciclista.
Non solo i maestri del Futurismo: fra gli anni settanta e ottanta Palmisano si avvicinò anche ai protagonisti delle avanguardie storiche internazionali. Fra questi predilesse soprattutto coloro che avevano operato ampiamente nel mondo del tessile ai primi del Novecento, come Edouard Benedictus, da cui tra il 1983 e il 1989 realizzò Floreale e Visual; Raoul Dufy, da cui nel 1989 creò i tappeti Tulipani e Divarata; Heinrich Campendonk, da cui gli arazzi Caprioli e Nella foresta; e George Darcy, da cui nel 1986 creò i tappeti Pesce con iris e Ninfea.
Fonte di ispirazione furono inoltre gli artisti dell’avanguardia russa: da un’opera di Kazimir Malevič del 1914 Palmisano tessé il tappeto Un inglese a Mosca; da un disegno di Natalia Gončarova del 1923 realizzò il tappeto Città nuova; da un dipinto di Ivan Kliun del 1921 creò Discovery; e infine da un disegno di László Moholy-Nagy del 1921 il tappeto Skylab.
Tra il 1975 e il 1978 fu la volta degli arazzi Albero in città, Frutta su fondo blu, Kilim e Vetrata, tratti da opere di Paul Klee.
Parallelamente alla ripresa di motivi dei maestri più emblematici che all’inizio del secolo avevano aperto la strada al rinnovamento dell’arte tessile, Palmisano aveva intuito la necessità di coinvolgere direttamente gli artisti dell’epoca. Avvertì quindi l’importanza di partire da un disegno appositamente concepito per farne un’opera tessuta, e così creare una sinergia fra ideatore ed esecutore durante la realizzazione: far sì, insomma, che l’arte figurativa e quella tessile dialogassero fra loro e si “contaminassero”. Una tale consapevolezza lo portò, già a partire dai primi anni settanta, a collaborare con i grandi artisti dell’epoca, italiani soprattutto ma non solo.
La prima collaborazione (ma anche la più intensa) fu quella con l’austriaco Oskar Kokoschka, che incontrò grazie a un amico in comune, l’editore Gotthard de Beauclair.
Ho conosciuto Oskar Kokoschka nella primavera del 1968. Andai a trovarlo insieme al suo editore Gotthard de Beauclair che avevo conosciuto a casa di Mark Tobey a Basilea. Abitava a Villeneuve, sul lago di Ginevra. De Beauclair aveva fissato l’appuntamento dicendogli il motivo della mia visita. Dopo i soliti convenevoli dissi che conoscevo la sua storia e le sue opere e che avevo organizzato nella mia galleria di Milano una mostra della Secessione Viennese (Klimt, Kokoschka e Schiele) con opere prestatemi dalla Galerie Welz di Salisburgo. Lo sapeva.
Palmisano fu subito allettato dall’idea di coinvolgere il grande maestro nella sua impresa tessile.
Gli parlai della mia manifattura di arazzi e tappeti e gli dissi che mi avrebbe fatto piacere avere nella mia collezione di arte tessile un arazzo disegnato da lui. Mi rispose che in quel periodo dipingeva e disegnava male, ma che ci avrebbe pensato e mi avrebbe dato una risposta l’indomani.
Il giorno dopo andarono nel suo studio e Kokoschka mostrò a Palmisano due litografie della serie I ragazzi sognatori che aveva prodotto nel 1908: La ragazza Li ed Io e La barca a vela.
Mi disse: “La prima raffigura il Paradiso Terrestre, la seconda raffigura l’Emigrazione. Se tu riesci a ricreare negli arazzi l’atmosfera poetica che c’è in queste opere sei bravo”.
I soggetti prescelti da Kokoschka erano alcuni disegni del periodo della Secessione, già concepiti per l’arte applicata fra il 1906 e il 1908, appunto Das Mädchen Li und ich e Das Segelschiff, tratti dalla serie di litografie create per illustrare una fiaba composta dallo stesso artista, Die träumenden Knaben. Gli arazzi furono realizzati nel 1970, a partire dai cartoni appositamente disegnati dall’artista, a grandezza naturale.
Volle vedere l’ingrandimento, i colori, i fili di lana e di seta. Scelse, scartò, attese. Quando gli portai il prototipo rimase scioccato.
La visita durò due giorni e i due ebbero modo di dialogare a lungo.
Ho approfittato della sua cordiale accoglienza per fargli un po’ di domande. Abbiamo conversato di arte, di politica, e della devastazione ambientale. Mi ha parlato del suo amore per l’Italia e dei suoi frequenti viaggi e lunghi soggiorni nel nostro paese. “L’Italia è molto vicina al mio cuore”, mi disse. “Io sono mediterraneo, non nordico. L’Italia è, come la Grecia, la culla del mio spirito. Non oggi però. Oggi è come New York. Grattacieli, monotonia, uniformità. L’Italia ha perso il suo carattere”. Gli ho chiesto se credeva nella validità dell’arte astratta o informale, e mi rispose: “L’arte astratta non è fatta per me. Probabilmente il mondo ha bisogno dell’arte astratta, dell’arte che fugge. Il mondo vuole fuggire. L’arte astratta è accettabile in quanto è un indice del mondo moderno. Io però voglio restare in ogni circostanza, non fuggire”. Mi incuriosì sapere se, cominciando a scrivere e a dipingere oggi, sarebbe stato ancora espressionista, e lui mi disse che credeva di non essere espressionista perché “espressionismo” è una parola di comodo, che vuol dire tutto oggi, oltre che essere un movimento moderno al quale non si è mai associato. “Io sono espressionista perché non so fare altro. Voglio esprimere la vita”. Quando gli chiesi se si sentiva un uomo libero, mi rispose: “Sì. Non conosco altra possibilità della vita se non la libertà. La libertà è la condizione sine qua non della vita. Sotto il nazismo la mia arte è stata considerata ‘degenerata’. Io non sono ‘degenerato’ per aver creato certe opere, ma perché rifiutai la proposta di Hermann Goering di diventare un artista del regime nazista”.
Nonostante il successo ottenuto, la collaborazione di Kokoschka con Palmisano si fermò a quei progetti. Altri artisti avevano tuttavia incominciato a frequentare il suo atelier, mettendo in gioco il proprio estro creativo. Un sodalizio importante che Palmisano instaurò in quegli anni fu quello con Mark Tobey: artista statunitense, decano degli espressionisti astratti, Tobey si era dedicato molto al disegno; con Palmisano aveva stretto una feconda cooperazione, che si tradusse in diversi progetti per tessili. Dai suoi modelli furono realizzati tre arazzi: Yellow lightning, White blossoming, Trio on blue, e un tappeto, Costellazione. Compiuti tutti fra il 1970 e il 1971, ciascuno in edizioni di pochissimi esemplari, ad eccezione di White blossoming prodotto in un’unica copia. Essi rappresentano composizioni emblematiche dove emerge chiaramente la cifra stilistica di Tobey: una pittura che predilige la linea alla massa (in virtù della sua passione per l’arte orientale) e che esalta la luminosità delle composizioni, caratteristica che la materia tessile accentua e valorizza grazie alla particolare capacità che ha soprattutto l’arazzo di assorbire e riflettere la luce.
Di lì a poco l’incontro con l’artista ungherese Tihamér Gyarmathy, con il quale Palmisano instaurò un forte legame, oltre che un’intensa collaborazione.
Avevo conosciuto Tihamér Gyarmathy a Budapest nel 1975 a casa di Zsusa Kadar, la figlia di Béla Kadar (un protagonista dell’avanguardia ungherese), di cui avevo organizzato nel 1970 una grande mostra nella mia galleria di Milano. Zsusa, che aveva già informato Gyarmathy della mostra dell’ Avanguardia Ungherese che avevo organizzato negli anni sessanta, mi accompagnò a visitare il suo studio. Appena entrato sentii un sottofondo musicale che proveniva da un giradischi. “Qui dentro c’è armonia musicale ungherese”, disse Zsusa. “Io lavoro con la musica perché traggo ispirazione dalla musica che ascolto”, disse Gyarnathy. Poi rivolto a me chiese: “Lei conosce la musica ungherese?” Risposi: “Stiamo ascoltando il Concerto per pianoforte di Béla Bartók. È la musica che Stanley Kubrick ha utilizzato per il film 2001 Odissea nello spazio”. Sorpreso, mi guardò a lungo e poi disse: “Ho disegnato un arazzo dove ogni segno corrisponde a una nota musicale. Sono le note musicali del Concerto per pianoforte di Béla Bartók. L’arazzo si chiama ‘Bartók Sinfonia’”. Il disegno originale a due colori (blu e giallo) fu acquistato da un ungherese residente a Londra, che poi lo cedette a Kubrick.
L’arazzo fu realizzato da Palmisano nel 1982: una pura armonia di linee colorate; fili gialli e blu, quasi impercettibili, che intrecciandosi sembrano riprodursi all’infinito in una sinfonia che richiama mondi lontani, lunari. Legati da una profonda amicizia, insieme crearono anche il tappeto Esplosione, nel 1986.
Le collaborazioni intrecciate con gli artisti internazionali all’inizio dell’impresa rappresentarono per la manifattura di Palmisano un grande trampolino di lancio, oltre che un importante riconoscimento anche in terra straniera; tuttavia, il nucleo fondamentale e anche più innovativo dell’arte di Palmisano prende forma tra gli anni settanta e ottanta dalla collaborazione con gli artisti, architetti e designer più affermati sullo scenario italiano dell’epoca. In primo luogo la cooperazione con i grandi astrattisti italiani, cercati e voluti da Palmisano fra le file dei suoi cartonisti. Firmatario del primo Manifesto dell’Astrattismo nonché pioniere della pittura astratto-concreta italiana, Mauro Reggiani fu uno dei primi a fornire a Palmisano disegni e bozzetti da tradurre in arazzi e tappeti. La loro collaborazione portò a Composizione astratta, un tappeto del 1973, dal cui disegno Reggiani aveva ricavato anche un cartone di 2×2 metri, e Composizione orizzontale, un tappeto realizzato con la tecnica del kilim, tratto da un disegno a collage dell’artista. Le due composizioni sono il segno evidente del lavoro di ricerca portato avanti negli ultimi anni da Reggiani: superfici di diverso spessore, rigidamente scandite dall’uso di colori primari sempre più vivaci.
Artista poliedrico, vicino al gruppo dei pittori della cosiddetta “astrazione geometrica” e firmatario anch’egli del Manifesto della Prima Mostra Collettiva di Arte Astratta Italiana, anche Luigi Veronesi collaborò personalmente con Palmisano. Per la manifattura, Veronesi realizzò due progetti: nel 1976 l’arazzo Focus, creato in un unico esemplare, e Per pianoforte, un tappeto del 1975. Figure geometriche rese esclusivamente dall’uso del colore dominano la prima composizione, mostrando la sua poetica vicina al “concretismo”; nella seconda opera, invece, emerge lo studio portato avanti dall’artista nell’indagine sui rapporti fra suoni e colori. Per pianoforte è un vero e proprio spartito su cui l’artista ha trascritto scale musicali e scale cromatiche, dando vita a una sua tipica sinestesia musicale.
Fra i grandi del MAC (Movimento per l’Arte Concreta), anche Gillo Dorfles subì il fascino dell’arte tessile: il suo incontro con quest’antica forma di espressione artistica avvenne negli anni settanta proprio grazie a Elio Palmisano. Più che l’arazzo, tuttavia, Dorfles ha sempre preferito il mezzo espressivo del tappeto, di cui ammirava – e tuttora ammira – la “raffinata tecnica manuale e la sua utilizzabilità materiale”. A Palmisano Dorfles commissionò due tappeti riprendendo alcuni suoi disegni di qualche decennio prima: Composizione ritmica, tessuto nel 1978 da un disegno del 1938; e Giardino, creato nel 1978 da un disegno del 1940. Realizzati come esemplari unici, i due tappeti hanno subito sorti diverse: Composizione ritmica risulta disperso, mentre Giardino fa bella mostra di sé nel soggiorno della dimora dell’artista.
Con l’avvento degli anni ottanta la produzione della manifattura Palmisano si fa sempre più intensa, continuando l’intesa con i maggiori esponenti dell’astrattismo italiano. Del 1983 è un tappeto kilim creato da un disegno di Mario Radice, Composizione IV, dove quadrati e rettangoli si incastrano a formare una “morbida” griglia geometrica.
Fortemente attratto dalla trasposizione in tessuto, Piero Dorazio realizzò diversi progetti per tappeti e arazzi in sinergia con molte manifatture italiane dell’epoca: fra le opere create con Palmisano dal 1981 al 1984 ricordiamo in particolare gli arazzi Quadricolore, Antalya, Aurora, Atrox e Crepuscolo, e il tappeto Andante rosso.
Con Eugenio Carmi Palmisano realizzò un unico arazzo nel 1984: Sogno sul Rosso.
Non solo arte astratta: Palmisano e i suoi sapienti collaboratori prepararono orditi e trame per tessere progetti di altri artisti appartenenti a correnti diverse o di personalità meno note che perseguivano una propria ricerca artistica individuale. Un legame molto profondo fu quello che Palmisano stabilì con Gianfranco Ferroni, pittore formatosi sotto l’influenza del cosiddetto Realismo esistenziale, fino all’adesione al movimento della “Metacosa”. Da un dipinto di Ferroni realizzò nel 1983 l’arazzo Massaciuccoli.
Dalla cooperazione con l’artista piemontese Ugo Nespolo nacque la serie di tappeti ideata appositamente per Palmisano dall’artista fra il 1985 e il 1987: Fuga, Omaggio a Klee, Foglia e Fiori e farfalle, Musica ad arte, Ottocentoquaranta, Trecentonovantuno. Scrisse Gillo Dorfles a tal proposito: “Piegare alla propria volontà, o al proprio gusto, un determinato materiale per renderlo ‘artistico’ non è da tutti. Anzi, accade spesso che un artista sia talmente condizionato da un particolare medium espressivo da divenirne succube; quando addirittura non accada che sia il materiale stesso a ‘imporre’ la strutturazione di un’opera. Nel caso di Nespolo – questo eterno fanciullo ormai quarantacinquenne – avviene proprio il contrario. Lo possiamo vedere molto bene nell’attuale serie di sette tappeti (eseguiti con mirabile tecnica, materiale squisito, e assoluta fedeltà cromatica, dalle Edizioni Tessili di Elio Palmisano) con i quali l’artista ha, una volta di più, dimostrato come un’opera ‘artigiana’ possa essere in tutto e per tutto analoga a un’opera di ‘arte pura’, purché sappia tener conto di certe esigenze dettate appunto dal medium con cui è strutturata, dalla scala, e dalla funzione che, in questo caso, è quella, molto precisa, dell’oggetto d’arredamento”. Animati da lettere, note musicali, numeri, fiori, farfalle e foglie, i tappeti di Nespolo sono lodati da Dorfles per le qualità di scansione geometrica, di libertà esecutiva, di acceso timbrismo del colore e di sottile ricerca di tonalità inconsuete, tutte tipiche della poetica di Nespolo; e per la capacità che hanno di testimoniare come anche le opere artigianali siano in grado di offrire allo spettatore tutte le caratteristiche stilistiche d’un artista, senza che queste vadano disperse: anzi, accentuandone le qualità espressive.
Altro artista meno noto ma non meno importante con cui Palmisano collaborò negli anni ottanta è Roberto Caspani, il cui esordio artistico alla fine degli anni settanta fu contrassegnato da un desiderio di sperimentazione di soluzioni inedite nei linguaggi formali. Nei suoi progetti per tappeti si evidenzia con chiarezza una peculiare cifra stilistica: opere caratterizzate da superfici interamente chiazzate di macchie multicolori, o solcate da un’interminabile stesura di segni disposti in ordine casuale e scomposto. I tappeti da progetti di Caspani realizzati da Palmisano fra il 1984 e il 1985 – Arcipelago, Frammenti e Componibile – sottolineano “la pluralità che compone l’opera, tessuta di motivi ripetuti ma privi della prevedibilità dei moduli”.
Sul finire del decennio anche il mondo del design italiano rimase affascinato dagli intrecci tessili di Elio Palmisano: i principali protagonisti del gruppo Memphis, attivo a Milano fra il 1980 e il 1987, furono infatti coinvolti nelle sue realizzazioni. Ettore Sottsass, fondatore del movimento, collaborò direttamente con Palmisano non solo fornendo spesso il suo contributo critico sui testi pubblicati dalle Edizioni Tessili Palmisano, ma soprattutto creando diversi progetti per tappeti. Dai disegni di Sottsass Palmisano realizzò il Tappeto per Max e gli arazzi Winter Day e Spring Day, tutti concepiti ed eseguiti nel 1989.
Grazie all’amicizia comune con il maestro Sottsass, anche Beppe Caturegli, architetto e artista eclettico, si avvicinò al mondo di Palmisano. La collezione di tappeti e arazzi che creò con le Edizioni Tessili Palmisano, fra il 1988 e 1989, comprendeva i tappeti Erba, Ecstasy, Spazio, Istanbul, Graffiti, Magdalena, Herat, Some Muslims Believe; gli arazzi Zoo, Soweto, Giro di amicizie, Intorno a un tavolo, Amazonas, Mappa di un mondo, Foresta, Beyrouth. Così lo stesso Ettore Sottsass narrava queste opere: “Mi pare proprio che Beppe faccia tappeti per affondarsi nella pittura, per colloquiare con la pittura. Questa volta i tappeti sono una specie di occasione per agitare colori e forme, per calcare la matita sulla carta e snervarla – la carta – di passione pittorica, per provare trasparenze, velature, opacità e accensioni, per capire fin dove può arrivare l’emozione della pittura, nei suoi più elementari meccanismi, nella sua logica di base. Il risultato è un paesaggio complesso, una curiosità vulcanica, accelerata, instabile e anche ansiosa della vita”.
Altri due giovani talenti e co-fondatori del gruppo Memphis, Nathalie Du Pasquier e George Sowden, fra l’inverno del 1982 e la primavera del 1984 disegnarono moltissimi progetti per tappeti, che furono poi realizzati da Palmisano dal 1985 circa al 1989. L’interesse per il mondo del tappeto ha sempre accompagnato Nathalie: da bambina trascorreva ore e ore a riprodurre i disegni dei tappeti che aveva a casa. L’idea di disegnare suoi motivi nacque in occasione di un viaggio compiuto in Tunisia nel 1982 con il compagno George. Senza spiegarsi come, in quel frangente iniziò a immaginare tappeti, forse complice quel nomade viaggiare che la portava a trascorrere gran parte del tempo in luoghi dove si realizzavano tappeti, rievocando ad ogni passo le Mille e una notte… Comprese così che avrebbe dovuto iniziare a creare sue composizioni affinché il tappeto potesse manifestarsi così come lei lo immaginava: ossia luogo privilegiato della sua casa, luogo sacro, in cui potersi rifugiare e accoccolarsi. I suoi primi esperimenti furono due tappeti per Memphis; poi continuò con Palmisano disegnando una collezione insieme a George Sowden. Dal suo personale estro nacquero Riviera, Riviera Grande, America, The birds, Ecuador, Panama, Sotto vento, Europa, Messico.
George Sowden invece si era dedicato ai tappeti sin dai primordi della sua carriera artistica, già all’inizio degli anni settanta. A condurlo alla scoperta di questo mondo fu in primo luogo la passione per le Arts & Crafts di William Morris, quando era ancora uno studente. Ciò che interessava al giovane designer era il decoro, che a quell’epoca era poco considerato. Da protagonista qual era dell’Industrial Design, Sowden era affascinato da una ricerca per certi versi opposta, una curiosità per qualcosa che non rientrava nella “normalità” delle rigide convenzioni del design di allora, qualcosa che uscisse dagli schemi: il decoro, appunto. Lavorare nel mondo del tappeto significava per lui operare nell’ambito del puro decoro, creare mirando non a una funzione ma semplicemente seguendo le forme e i colori dettati dalla mente. Dopo una prima produzione di arazzi tessuti a mano personalmente nel 1976, nel corso degli anni ottanta per Palmisano Sowden creò numerosissimi bozzetti da cui furono realizzati esclusivamente i tappeti Palm Spring, India, Kurdistan, Nuova Inghilterra, Gathering, Porch, Guide e Prototipo.
I tappeti di Du Pasquier e Sowden parlano un linguaggio comune: macchie di colore incasellate in motivi geometrici e improbabili forme di natura vegetale, che catturano per la straordinaria capacità di raccontare mondi moderni permeati di “antico decoro”. “Utilizziamo la decorazione per dare all’oggetto valori femminili, morbidi non aggressivi. Filtriamo tutte le suggestioni del mondo di oggi, dalla pittura alla pubblicità, che osserviamo per strada, al cinema, alla musica pop, attraverso la nostra sensibilità, per comunicare, anche, sogni, aspirazioni, come ci piacerebbe il mondo”.
Anche la giovane artista Beatrice Santiccioli ha dato un contributo originale all’arte tessile del Novecento. Pittrice e designer, si è fatta strada a Milano con le sue innovative creazioni. L’incontro con Palmisano avvenne all’inizio degli anni novanta grazie al padre di lei, proprietario di un negozio di design a Firenze. Insieme crearono Gli arazzi della Nuova Era, una serie di opere a tarsie di tessuti diversi, rifiniti con cordonetto, punto pieno, punto lanciato e punto raso. Realizzati con tessuti di vario genere, dai rasi alle tele, e disposti su un supporto di tela o altro genere di tessuto, creano l’effetto di tessere di mosaici. L’ispirazione per la realizzazione di questi arazzi venne principalmente dai metodi di lavorazione della Casa d’Arte Depero, perfezionati con l’ausilio delle più sofisticate tecnologie artigianali. I disegni sono stati eseguiti dall’artista sia a mano libera sia con un particolare sistema grafico, attualmente non più in uso. Fra queste opere il ricordo dell’artista si posa in modo particolare su Giardino: “Ho disegnato il tappeto Giardino precedentemente al mio trasferimento in California quando ancora abitavo a Milano e disegnavo grafiche e colori per gli orologi Swatch AG. Con Giardino ho voluto creare un tappeto dove le immagini che lo compongono sembrano appartenere ai mondi sia marino che terrestre. La distinzione fra i due è quasi impercettibile, come vista attraverso un filtro leggero. I tenui colori pastello aiutano e amplificano questa sensazione. Osservarlo e ritrovarsi a galleggiare con la fantasia in un mondo delicato e stravagante”.
All’inizio degli anni novanta avvenne l’incontro tra la perizia tessile di Palmisano e l’arte “irriverente” di Maurizio Cattelan:
Maurizio Cattelan, che aveva disegnato qualche anno prima un tavolo per la Dilmos di Milano, era amico di Lucio Zotti, uno dei fondatori della Dilmos. Cattelan aveva visto nel negozio della Dilmos i miei tappeti. Un giorno disse a Zotti che il Castello di Rivoli gli aveva chiesto di realizzare un grande tappeto con il marchio storico della Galbani e la fotografia del fondatore. Il direttore del museo mi inviò una foto dettagliata della scatola del BELPAESE, mi chiese informazioni circa la realizzabilità del progetto e un preventivo di spesa. Gli dissi che sarebbe stata un’impresa ardua costruire con i nodi le scritte, il logo rosso della Galbani e la fotografia del fondatore, ma mi impegnavo a procedere. Ci vollero sette mesi e la perizia di cinque sapienti tessitrici per terminare la lavorazione del tappeto (diametro320 cm), annodato a mano su telaio verticale con 120.000 nodi Senneh al metro quadro.
ll tappeto Bel Paese, realizzato nel 1994, fu presentato per una mostra al Castello di Rivoli; il formaggio diventa un vero e proprio tappeto che i visitatori sono costretti a calpestare e allo stesso tempo a sporcare, quasi a cancellarlo, come se lo stivale italiano si dissolvesse a poco a poco con i passi e con l’usura dei suoi stessi abitanti.
Non solo maestri affermati nelle creazioni di Palmisano, ma anche nuove leve: il sogno dell’editore tessile era, infatti, quello di scoprire artisti emergenti e portarli alla notorietà mentre erano ancora in vita, e diffondere le loro opere così che fossero in molti a conoscerli e a goderne. In questa direzione ricordiamo gli arazzi e i tappeti realizzati da disegni di Ettore Beltrami, Leslie Ann Keller, e ancora Michele Venturi, Utamaro Kitao, Nikos Zantakis, Manuel Ortega, e anche un gruppo vario di artisti, architetti e designer da lui riuniti sotto la denominazione “New Age Studio”.
Palmisano ha ottenuto numerosi riconoscimenti in tutto il mondo sin dai primi anni di attività; ciononostante, non mancarono alcuni momenti di crisi, dovuti alla difficoltà di portare avanti un’impresa così costosa e complicata. Il successo arrivò dapprima in terra straniera, negli Stati Uniti e in Germania soprattutto, dove la mentalità era più aperta al nuovo, come sostiene lo stesso Palmisano. Tuttavia, nel giro di un solo decennio era riuscito a introdurre l’Italia nel mercato internazionale dell’arazzo e del tappeto legato all’arte contemporanea, e la sua impresa aveva avuto grande eco presso i media del nostro Paese. Nel corso degli anni ottanta, in particolar modo, sulle riviste di arredamento e di moda, così come sulle testate nazionali più importanti, i suoi arazzi e tappeti d’autore destavano ogni volta molto clamore. Numerose sono state le mostre allestite in alcune gallerie importanti: Grand Palais di Parigi, Modern Art di Monaco, Westend Galerie di Francoforte, Art Expo di New York, Washington Art di Washington.
Non solo all’estero ma anche in Italia, alla fine degli anni ottanta e soprattutto nel decennio successivo diverse esposizioni valorizzarono l’opera di Palmisano: la più imponente fu quella organizzata presso la Permanente di Milano, ma non furono da meno la mostra presso la Galleria Vismara, e quella su “Artisti e Arazzi del Novecento”, dove grande spazio fu dato alle sue creazioni.
L’impresa di Palmisano rappresenta un unicum nella storia dell’arte tessile italiana del Novecento. Le sue creazioni narrano i linguaggi visuali del secolo, italiani e non solo, letteralmente “intrecciando” l’arte tessile con l’arte contemporanea.
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